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Il trapianto di Midollo Osseo nelle Leucemie Acute (parte 1)

Articolo 7 della serie sulle Leucemie Acute a cura del dott. Federico Mosna.

Questo sarà l’ultimo articolo della nostra serie dedicata alle leucemie acute e, facendo riferimento agli articoli precedenti, che consiglio di leggere prima, si concentrerà sul trapianto di midollo osseo. Per la complessità dell’argomento, sarà diviso in due parti.
Nel contesto delle leucemie acute, il trapianto di midollo osseo è una procedura necessaria, in genere come consolidamento di una precedente risposta ottenuta con la chemioterapia di induzione ed eventualmente di consolidamento, per la cura delle forme più aggressive di malattia, e cioè di circa due terzi delle leucemie mieloidi acute (LAM) e circa un terzo delle leucemie linfoblastiche acute (LAL).

Con il termine “trapianto” in Medicina si intende il trasferimento di cellule vive: come tale, tecnicamente esso si distingue in trapianto “autologo”, dove le cellule vengono prelevate direttamente dal paziente e reinfuse in un secondo momento, o “allogenico”, dove le cellule vengono donate da un’altra persona con certo livello di compatibilità genetica con il ricevente.
Si parla propriamente di trapianto di midollo osseo quando le cellule trapiantate derivano direttamente dall’espianto di parte del midollo osseo del donatore prelevato nel suo insieme dall’osso del bacino; di trapianto di cellule staminali ematopoietiche (CSE) quando si mobilizzano selettivamente queste ultime dal midollo osseo con farmaci particolari e si raccolgono dalla circolazione sanguigna con una procedura apposita chiamata “aferesi”.
Da un punto di vista funzionale, i due trapianti si equivalgono in Ematologia per quasi tutti gli aspetti fondamentali, anche se differiscono per alcuni dettagli importanti di cui parleremo brevemente in questo articolo. Il trapianto di cellule staminali da cordone ombelicale è di fatto un trapianto di CSE.

Il trapianto autologo può essere anche visto come un escamotage che consente, una volta raccolte fisicamente le cellule staminali ematopoietiche (CSE) del paziente, di sottoporlo ad una chemioterapia massiva, tale da obliterare quasi completamente il midollo osseo del paziente, al punto da non consentire un recupero spontaneo dall’aplasia conseguente. Come tale, questo tipo di chemioterapia (“mieloablativa”, cioè tale da eliminare completamente il midollo osseo) è possibile solo a patto che, dopo la somministrazione, la formazione delle cellule del sangue venga ripristinata reinfondendo le CSE del paziente e garantendo la rigenerazione del midollo osseo. Il vantaggio di tale procedura, ovviamente, è che aumentando la dose (e spesso cambiando i farmaci impiegati rispetto ai cicli precedenti) è possibile in varie circostanze vincere la resistenza alla chemioterapia presentata da poche cellule leucemiche residue che altrimenti sarebbero responsabili di una successiva ricaduta. Con queste modalità, un trapianto autologo è oggigiorno una procedura relativamente sicura, i cui rischi sono gli stessi di una potente chemioterapia, in termini di mucosite e soprattutto del rischio infettivo derivante dall’aplasia (si vedano in merito gli articoli 2 e 3 di questa serie). Detto ciò, il ruolo del trapianto autologo nella terapia delle leucemie mieloidi acute è attualmente molto limitato, perché vari studi condotti nel recente passato hanno dimostrato come nella maggior parte dei casi i vantaggi ottenuti in termini di guarigione con tale procedura siano pari a quelli ottenibili attraverso cicli ripetuti di consolidamento con farmaci meno tossici e meno rischiosi, e quindi in generale da preferirsi.

Diverso è il discorso del trapianto di midollo osseo “allogenico”, dove il donatore è un’altra persona, e dove, insieme alle CSE, si trapianta anche un nuovo sistema immunitario, derivante in parte dai globuli bianchi che sono contenuti nella sacca di trapianto (e che vengono raccolti insieme alle CSE o al midollo osseo intero), ma soprattutto dai globuli bianchi che dal trapianto in poi si formeranno per proliferazione e maturazione delle CSE del donatore.
Per questa ragione, nei trapianti di midollo osseo, la compatibilità genetica tra donatore e ricevente è un criterio imprescindibile. A livello teorico tale compatibilità sarebbe assoluta solo nel caso di un gemello identico, “monozigote”: in questo caso, infatti, il genoma di entrambi gli individui sarebbe identico al 100%, e la compatibilità massimale.

Figura 1. Complesso dei geni HLA. © dell’autore (F. Mosna)


Tuttavia pochissimi pazienti leucemici dispongono di un gemello identico (i gemelli diversi, “dizigotici”, sono geneticamente semplicemente dei fratelli nati dalla stessa gravidanza), e anche in questo caso, non è detto che tale scelta sia per forza la migliore, per motivi che spiegheremo dopo.
Più comune è trovare all’interno di una famiglia dei fratelli o delle sorelle che abbiano ereditato la combinazione di 12 geni (di cui 8 fondamentali e 4 un po’ meno importanti) indispensabili per stabilire la compatibilità tra i due sistemi immunitari a confronto, quello del ricevente e quello del donatore. E’ la famiglia dei geni HLA, “human leukocyte antigens” (Figura 1), che formano nell’uomo il “complesso maggiore di istocompatibilità” (MHC) e sono le fondamenta del sistema molecolare attraverso cui le cellule immunitarie riconoscono le altre cellule del proprio organismo, evitando di danneggiarle, e al contrario si attivano contro ciò che è estraneo percependolo come potenzialmente pericoloso.
Un’incompatibilità, anche parziale, nei geni HLA determina dopo un trapianto di midollo osseo un continuo segnale di “estraneità” tra le cellule del nuovo sistema immunitario e le cellule dell’organismo in cui il trapianto si deve sviluppare, e determina una costante spinta attivatoria dei globuli bianchi derivanti dal trapianto, i quali possono quindi attivarsi contro le cellule del paziente trapiantato indipendentemente dalla loro natura di cellule malate o sane.
E’ quindi possibile si verifichi una condizione chiamata “reazione del trapianto contro l’ospite” (in Inglese “Graft-versus-Host-reaction”, GVHD), cioè una massiva attivazione immunitaria dei globuli bianchi del donatore contro vari tessuti e organi del ricevente, e che questa reazione sfoci in una vera a propria malattia, in alcuni casi tale da mettere seriamente a rischio la vita del paziente. Del pari, è possibile anche che questa diversità dei geni HLA sfoci nella condizione opposta, forse più facile da intuire, e cioè in un’attivazione del sistema immunitario del ricevente, non adeguatamente condizionato dalla terapia pre-trapianto, contro le CSE trapiantate: in questo caso, ciò che si osserva è un “rigetto”, il cui rischio è proporzionale, così come la GVHD, alla diversità genetica dei geni HLA tra donatore e ricevente.
Con i moderni protocolli di preparazione al trapianto (“condizionamento”) il rigetto è un’eventualità rara, che colpisce il 2-5% dei trapianti effettuati, ed è poco più frequente nei trapianti a pazienti anziani o con compatibilità ridotta (50% solo dei geni HLA). La GVHD, invece, sia nella sua forma “acuta” (in genere evidente nei primi 100 giorni dopo il trapianto, ma potenzialmente possibile anche per alcuni mesi dopo), sia nella sua forma “cronica” (possibile anche ad anni di distanza dal trapianto stesso, ma meno aggressiva, spesso meno estesa e complessivamente meno pericolosa per la vita) interessa il 30-40% dei trapianti da familiare HLA-identico e il 40-50% dei trapianti da donatore da registro internazionale, aumentando come possibilità con il diminuire dei livelli di compatibilità.

Figura 2. Ereditarietà mendeliana dei geni HLA.
© dell’autore (F. Mosna)

Un fratello non gemello monozigote ha una probabilità di circa il 25% di ereditare lo stesso corredo di geni HLA dai genitori comuni, dal momento che il corredo HLA (“aplotipo”) si trasmette secondo regole di genetica classica mendeliana, per la vicinanza fisica dei geni sullo stesso cromosoma (Figura 2). Purtroppo, in molti casi, non ci sono fratelli compatibili disponibili in famiglia, o ci sono ma, dopo un’analisi del donatore, non risultano tali, per età avanzata o altre malattie loro, da poter donare senza potenziali rischi alla propria salute (una condizione indispensabile per qualsiasi donazione di CSE o midollo osseo). In tal caso si avvia la ricerca di un potenziale donatore nel registro internazionale (International Bone Marrow Donor Registry, IBMDR), dove si cerca su un bacino di circa 25 milioni di potenziali donatori un individuo che casualmente abbia ereditato dai propri genitori la stessa combinazione genetica rispetto a quella del paziente, eventualità che si stima possa avverarsi in circa 1 caso su 100.000 (quindi rara, ma non impossibile).
Al giorno d’oggi, grazie all’avanzamento delle tecniche e all’attuale estensione del registro di donatori volontari, è possibile trovare un tale donatore compatibile in circa il 40% dei casi, e quindi organizzare con il Centro Donatori (sia esso in Italia, Europa o altrove nel mondo) la successiva donazione. E’ chiaro che la recente pandemia dovuta al COVID-19 ha molto ostacolato l’organizzazione di tali trapianti, tutt’oggi comunque possibile grazie ad uno sforzo straordinario da parte di tutti gli attori coinvolti, dai donatori, ai medici Trasfusionisti responsabili della valutazione e della raccolta delle CSE, al personale amministrativo per i documenti di trasporto e passaggio doganale, ai Corrieri, agli Ematologi di entrambe le equipe, quella responsabile del donatore e quella del paziente.
Quando non sia possibile trovare un donatore HLA-identico nemmeno dal registro internazionale, la scelta cade sui donatori identici-a-metà (“aploidentici”), per lo più selezionati tra i familiari (genitori, figli, in taluni casi i cugini), o cercando un’unità compatibile di “cellule staminali del cordone ombelicale”, raccolte e donate per uso clinico al termine di una gravidanza.

Di tutto questo parleremo nel prossimo articolo della nostra serie (continua).



Dr Federico Mosna, MD PhD
Medico dell’Ematologia e

Centro Trapianti di Midollo Osseo di Bolzano




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