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Il trapianto di midollo osseo nelle leucemie acute (parte 2)

Ottavo ed ultimo articolo di questa serie curata dal dott. Federico Mosna e dedicata alle Leucemie Acute.

Buongiorno
Rimando al precedente articolo di questa serie, dove abbiamo spiegato i termini e le premesse relative al trapianto di midollo osseo e/o di cellule staminali ematopoietiche (CSE).
Quanto segue è la diretta prosecuzione dell’articolo precedente.

I trapianti di midollo osseo aploidentici

Sono una realtà relativamente recente, sperimentale fino a circa una decina di anni fa, ma attualmente in constante crescita a livello italiano e internazionale: presentano l’indubbio vantaggio di una facile reperibilità del donatore, che, essendo molto spesso un familiare, risulta poi fortemente motivato e facilmente disponibile in termini di organizzazione della donazione.
E’ tuttavia un tipo di trapianto marcatamente diverso da quello con donatore HLA-identico, che richiede un diverso tipo di condizionamento preparatorio e soprattutto una diverso tipo di profilassi della GVHD nell’immediato post-trapianto, più immunosoppressiva e più radicale nel resetting delle cellule del sistema immunitario del donatore. Pertanto, presenta un rischio infettivo che è probabilmente superiore, e una ricostituzione a lungo termine più lenta del nuovo sistema immunitario; in molti studi si sono notate anche maggiori complicanze infettive, soprattutto dal secondo al quarto mese, in termini in particolar modo di riattivazioni virali di virus già presenti, addormentati o sotto scacco, nel ricevente (virus dell’herpes simplex, citomegalovirus, virus di Epstein-Barr e altri).
Ciò nonostante, i trapianti aploidentici stanno diventando sempre più comuni in tutta Europa e nel mondo, man mano che le nostre conoscenze in merito migliorano e si rendono disponibili nuovi farmaci anti-infettivi più efficaci (per esempio nella profilassi della riattivazione del citomegalovirus).
Poco parlerò in questo articolo, invece, dei trapianti da CSE cordonali, un sottogruppo di trapianti estremamente specializzato, con numerose particolarità, inerenti ad una maggiore adattabilità immunologica delle CSE e ad una maggiore lentezza di sviluppo (e ricostituzione midollare e del sistema immunitario) post-trapianto. Le CSE cordonali presentano un problema importante: sono per loro natura poche, e quindi adatte per lo più a riceventi di piccolo peso. Questo fatto ne ha a lungo limitato l’uso nella terapia degli adulti, mentre non ne ha limitato l’impiego nel caso di pazienti pediatrici, dove oggigiorno sono una valida fonte alternativa di CSE per trapianto.

Una volta selezionato sulla base della compatibilità dei geni HLA, il donatore viene selezionato sulla base di altri parametri secondari (tra i quali l’età, precedenti infezioni virali, il peso, la compatibilità del gruppo sanguigno – un problema comunque tecnicamente superabile – e altri) e quindi esaminato da un punto di vista medico per verificarne la possibilità di donare senza potenziali rischi.

Figura 1. Cellula staminale ematopoietica periferica CD34+. © dell’autore (F. Mosna).

Come abbiamo anticipato nel precedente articolo di questa serie (articolo 7), la donazione può riguardare midollo osseo intero (prelevato attraverso una serie di aspirazioni con aghi cavi dall’osso del bacino, e molto raramente dallo sterno, attraverso una breve seduta in sala operatoria) o le sole CSE (riconosciute attraverso l’espressione della proteina CD34, e quindi chiamate anche cellule staminali periferiche CD34+, (Figura 1), mobilizzate dal midollo osseo tramite un farmaco attivatore (dato al donatore nei giorni precedenti alla donazione) e quindi prelevate attraverso una macchina di raccolta selettiva (“aferesi”) dove il sangue viene processato e filtrato delle CSE prima di essere restituito al donatore stesso.
In molti casi il trapianto di midollo osseo e quello di CSE sono equivalenti in termini di risultati e rischi clinici; esistono però alcune particolari malattie (p.e. l’aplasia midollare severa) o condizioni (p.e. una leucemia in remissione a confronto con una non in remissione) in cui è possibile preferire sulla base di alcuni grossi studi internazionali il midollo osseo rispetto alle CSE.
Le CSE inoltre hanno in alcuni studi un aumentato rischio di GVHD cronica a lungo termine dopo il trapianto; si tratta di aspetti molto tecnici, che vanno valutati caso per caso.

Figura 2. Schema di un trapianto di midollo osseo con condizionamento mieloablativo. © dell’autore (F. Mosna).

Una volta identificato il potenziale donatore e organizzata la raccolta delle cellule allogeniche, il paziente che riceverà il trapianto viene quindi ricoverato, si posiziona un accesso venoso stabile alle grandi vene del torace (“catetere venoso centrale”) e si inizia una terapia di preparazione (“condizionamento”) che consenta di eliminare il midollo osseo (e verosimilmente buona parte delle eventuali cellule leucemiche residue) e di sopprimere il sistema immunitario del ricevente per prepararlo all’accettazione del midollo (o delle CSE) del donatore.
Storicamente, il regime di condizionamento per un trapianto è costituito da una chemioterapia ad alte dosi (combinata o meno con una radioterapia di tutto il corpo, total body irradiation, (TBI), che concentra in brevissimo tempo le proprietà di eliminazione del midollo precedente (malato e sano), immunosoppressione e svuotamento delle nicchie microambientali; questo approccio viene definito “mieloablativo”, perché “cancella” il midollo precedente (Figura 2).

A partire dai primi anni del 2000, però, un secondo approccio si è affiancato al precedente, con l’uso di chemioterapie meno intensive e maggiore immunosoppressione sia prima che dopo il trapianto. Questo secondo approccio, “a condizionamento ridotto” o “non mieloablativo” (a seconda dell’effettiva intensità dei farmaci impiegati, (Figura 3) ha consentito, per la migliore sopportazione, di estendere il trapianto anche a pazienti più anziani, e di ridurre i rischi connessi alla procedura.
Tuttavia, a differenza del primo, ha un minor effetto antileucemico nei primi mesi successivi al trapianto, e richiede più tempo per stabilizzarsi, man mano che le cellule del donatore sostituiscono nel corso di mesi il midollo del ricevente (con il quale pertanto si trovano dapprima a convivere, in una condizione definita “chimerismo”).
A seconda della malattia, dell’età e condizioni del paziente e dello stato del midollo al momento del trapianto, è necessario scegliere tra le diverse opzioni in modo individualizzato, caso per caso.

Figura 3. Schema di un trapianto di midollo osseo con condizionamento ridotto e/o non-mieloablativo. © dell’autore (F. Mosna).

Qualunque sia il regime scelto, una volta concluso lo stesso e atteso il tempo di metabolizzazione di tali farmaci, si reinfonde quindi in vena il midollo osseo (o le CSE) per il trapianto.
Trattandosi di cellule vive, dopo un breve ricircolo esse trovano da sole, nel giro di poche ore, lo spazio per aderire agli spazi intraossei lasciati liberi dal midollo prima presente e per annidarsi nelle nicchie dove poi devono proliferare ed espandersi. Non è necessario nulla di chirurgico, il trapianto si svolge attraverso di fatto una semplice trasfusione endovenosa.
Ad esso segue poi un periodo di espansione, sviluppo e ricostituzione del nuovo midollo osseo, e quindi del nuovo sistema immunitario.
I rischi di tale periodo sono derivati soprattutto dai rischi comuni con le chemioterapie intensive, quali mucosite e aplasia, e dai rischi tossici su fegato, reni e altri organi dati dall’impiego di terapia pesanti come la chemioterapia di condizionamento o parte della profilassi anti-infettiva successivamente necessaria (rimando per tali concetti agli articoli precedenti di questa serie, in particolare gli articoli 2, 3 e 5).
Ma il rischio principale è ovviamente dato dalle infezioni, con tre periodi a rischio decrescente (a) i primi 30 giorni; b) il secondo e terzo mese; c) dal giorno +100 al sesto mese dal trapianto) in cui il paziente deve considerarsi immunodepresso, assumere una serie di farmaci in profilassi, adottare uno stile di vita prudente e riservato (soprattutto nei confronti di potenziali portatori di malattie infettive) e deve essere osservato con particolare frequenza ed attenzione dal team trapiantologico per eventuali aggiustamenti della terapia anti-infettiva e di supporto.
Oltre alle infezioni, è poi la GVHD la più comune possibile complicanza del trapianto di midollo osseo, anche se nella maggior parte delle sue forme si tratta di una condizione contenibile con un’attenta gestione della terapia immunosoppressiva.

Tale terapia costituisce il “freno” fondamentale all’eccessiva reattività immunologica data dalla intrinseca “estraneità” delle cellule del donatore rispetto a quelle del ricevente, anche nel contesto di una piena compatibilità dei 12 geni fondamentali, il sistema HLA. Anche in questo caso, infatti, esistono numerose diversità minori (nei cosiddetti geni minori di istocompatibiità) che possono essere responsabili di un’attivazione immunologica del donatore contro il ricevente o viceversa.
Una terapia immunosoppressiva è pertanto indispensabile nei primi 50-100 giorni dopo il trapianto, anche se successivamente, nella migliore delle ipotesi, diventa poi sempre meno necessaria. Pertanto è possibile scalare progressivamente tale terapia, mentre il nuovo sistema immunitario si adatta progressivamente al nuovo corpo in cui si trova. Trattandosi di cellule vive, infatti, i globuli bianchi del donatore sono capaci di adattarsi ad uno stimolo cronicamente presente riconoscendolo progressivamente come un “non-pericolo” man mano che il trapianto si evolve e stabilizza nel nuovo organismo.
Nella maggior parte dei casi, è possibile ridurre lentamente e infine sospendere la terapia immunosoppressiva in circa 6 mesi dal trapianto stesso, cosa che invece a tutt’oggi è impossibile per i trapianti di organi solidi, come rene e cuore, dove, non trapiantandosi insieme al nuovo organo il sistema immunitario del donatore, il trapianto stesso rimane cronicamente a rischio di un attacco immunologico da parte del sistema immunitario del ricevente. Non è infatti possibile infatti nella pratica selezionare il donatore di rene o d’altro organo solido sulla base della sua compatibilità genetica con il ricevente. Sotto questo aspetto, il trapianto di midollo osseo (o di CSE) rappresenta un esempio unico nel suo genere.
Anche dopo la sospensione dell’immunosoppressione, il paziente trapiantato rimane un paziente “particolare”, a maggior rischio di complicanze a lungo termine (verificabili anche ad anni di distanza dal trapianto) rispetto alla popolazione generale non trapiantata. Pertanto necessiterà sempre di una particolare attenzione, nella forma di esami e visite di screening (esami, visite ematologiche, dermatologiche, mammografie, ecocardiografie, ecografie dell’addome e della tiroide) e nella forma di una particolare attenzione ad uno stile di vita sano e prudente per il resto della sua vita.
A 21 anni dall’apertura dell’attività trapiantologica presso l’Ematologia di Bolzano, abbiamo ancora alcuni pazienti che 21 anni dopo vengono in visita una volta all’anno a portarci gli esami annuali e raccontarci della loro “seconda vita” dopo il trapianto.
E’ difficile, ma non impossibile, che un trapianto non abbia nessun genere di complicanza: in uno studio interno a Verona si stimava avesse un tale fortunato decorso circa il 10% dei pazienti trapiantati.
Molto più comune è che si verifichi qualcuna di queste complicanze, e che esse, affrontate adeguatamente, possano poi essere risolte con la corretta terapia. Non necessariamente il verificarsi di qualche complicanza è un fenomeno dannoso: numerosi studi hanno confermato infatti come una lieve GVHD correli strettamente con una pari attività delle cellule del sistema immunitario del donatore anche contro le cellule leucemiche residue pos-trapianto, e quindi con le possibilità di guarigione definitiva del paziente trapiantato.
Per tale ragione un fratello HLA-identico, che conserva una minima diversità immunologica nei geni non HLA, sarà da preferirsi ad un gemello monozigote, che invece è identico al ricevente nel 100% del proprio genoma, anche nei casi in cui quest’ultimo sia disponibile.

Il trapianto di midollo osseo (o di CSE) è quindi un percorso, più che un semplice trattamento, con vari attori coinvolti, e in cui la compartecipazione attiva del paziente trapiantato è essenziale, soprattutto per la buona riuscita a lungo termine. Ciò nonostante è anche l’unica modalità per riuscire a curare definitivamente moltissimi pazienti affetti da leucemia acuta, soprattutto in età adulta.
Recentemente, il condizionamento a dose ridotta e/o non-mieloablativo lo ha reso applicabile anche in età avanzata ad una percentuale sempre più crescente di pazienti in buone condizioni di salute. Là dove fino al 2000 l’età massimale di trapiantabilità non superava i 55 anni di età, attualmente è diventato possibile trapiantare fino ai 70-75 anni, a patto che il ricevente sia in buone condizioni di salute e privo di altre malattie gravi oltre alla leucemia acuta.

Abbiamo così concluso la nostra serie di articoli dedicati alle leucemie acute, che ci ha tenuti impegnati da agosto 2020.
Spero possano aver risposto ad alcune curiosità dei lettori, ma soprattutto spero possano aver sollevato nuove domande, come spesso accade quando si parla di scienza. Il principale motore del progresso scientifico è infatti la curiosità, e tutti possono fare la loro parte.
Solo ponendosi delle domande è possibile raggiungere una vera conoscenza.


Ringrazio tutti i lettori per il tempo e l’interesse dedicati alla lettura di questi articoli!



Dr Federico Mosna, MD PhD
Medico dell’Ematologia e

Centro Trapianti di Midollo Osseo di Bolzano


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