
Un filone piuttosto importante dell’antropologia si occupa dei concetti di malattia e di cura da un punto di vista culturale. A Francesca Cappelletto, promettente antropologa e ottima ricercatrice, è accaduto però di dovere volgere lo sguardo su se stessa. Il male l’ha colpita e Francesca, ha deciso di fare una sorta di etnografia autobiografica, analizzando con lo sguardo dell’antropologa ciò che stava accadendo al suo corpo. Una descrizione profonda, lucida e drammatica, che non può essere raccontata meglio che con le sue stesse parole.
«Etnografia autobiografica, trasmettere una visione dall’interno della sofferenza che si produce nella relazione medico-paziente. Diagnosticato cure pesanti per tumore. Mondo diverso da quello in cui tutti vivono normalmente, mondo in cui la cittadinanza è più onerosa (tutti quelli che nascono hanno doppia cittadinanza nel regno dello star bene e dello star male). Descrivere la spersonalizzazione delle corsie d’ospedale, in questo mondo diverso si sommano: sofferenza originaria (insite nella corporeità della malattia), sofferenza aggiunta (si produce nel rapporto distorto medico-paziente, una sofferenza sociale), le due sono strettamente legate. Descrivo le situazioni in cui il medico (bio-medico) non comprende come sia parte del suo mestiere dialogare con il malato e cercare di non abbandonare l’esperienza vissuta di questo. Esistono anche medici e pazienti quasi perfetti […]
Emigrare nel regno della malattia, costruirsi una nicchia in un altro mondo: muta percezione della realtà, paura invade coscienza, senso di estraneità rispetto al mondo dei sani. Diversi, un’altra dimensione, si è soli, non si condivide più con gli altri la stessa percezione della realtà. […] Si parla del “sé malato” come il sé astratto di un altro. La dimensione in cui il malato è immerso e che lo accompagna durante tutte le cure è “liminalità” (transizione, distacco da un mondo e aggregazione ad un altro, crisi, in bilico tra un mondo perduto e uno da guadagnare). Questa configurazione di sentimenti influenza la comunicazione medico-paziente».
Si viene così, secondo Francesca, a creare un rapporto asimmetrico, tra il malato, che vive in un mondo in cui sono crollati dei significati, e il medico, che invece vive in un mondo saldamente ancorato alla datità del reale. Il primo vive in pieno la precarietà dell’esistenza umana, di fronte ad un abisso «e il suo desiderio è riaggrapparsi in corpo e mente al mondo non anomalo del terapeuta. Medico è mediatore di questa realtà, la vicinanza che il malato crea è bisogno di contatto fisico ed emozionale, persona che fa parte di un mondo al quale vuoi aggrapparti. Paternalismo e distacco consapevole sono due modalità di egemonia psicologica, che il medico propone al paziente come forma della loro relazione. Paternalismo: attitudine caritevole. Il minore non deve necessariamente prendere parola. Gli è chiesta un’attitudine docile perché altri pensano per lui. Rapporto asimmetrico perché basato sul sentimento di protezione. Emozionalmente esclude il confronto».
Ecco allora che emergono le profonde differenze tra i medici che provano empatia e quelli “asettici”, che aboliscono il vissuto del paziente, relegando i due attori ciascuno nella sua nicchia esistenziale. «Detentore di sapere inafferrabile. Distanza induce disagio nel malato e produce anche effetti bio-medici, es: uso indiscriminato di farmaci. All’assenza dell’ascolto umano corrisponde l’eclissarsi dell’auscultare semiotico. É importante che si crei una dimensione partecipativa, e magari di complicità, vedere se stessi e l’altro cooperare per la guarigione. Questa dimensione è negata nel rapporto paternalistico (alto-basso) e distacco consapevole (fuori-dentro) […] Scivolosità, consultazione e cura avvengono in un contesto privatizzato e individualistico. La violenza si esplica nel abolire il vissuto del paziente, la punizione è il silenzio. La differenza sta nella qualità del rapporto di potere: nel contesto aziendale si aliena la propria forza-lavoro, in quello medico se stessi nella formula “mi metto nelle tue mani”».
«Il dolore è un’esperienza umana che toglie potere all’individuo» scrive Francesca, “mettersi nelle mani di” significa superare una perdita, affidando quel potere ad un altro, a quest’altro si deve tutto. Significa anche allentare un senso di tormento, togliersi il peso del corpo malato e scaricarlo su un altro. Così nasce la figura del medico semidio. «Il malato è senza potere, ha un corpo reso docile, dolore che si origina dalla malattia e viene inflitto dalle cure». Un corpo malato è oggetto di conoscenza, ha ruolo passivo e questo può indurre un sentimento di espropriazione: il corpo diventa dominio della pratica medica. Anche qui, c’è una distinzione: ci sono medici che soffrono per il fallimento, mentre dietro al fallimento del medico asettico c’è forse l’immaturità a comunicare l’incertezza e il possibile fallimento. Il modellamento sociale di natura ideologica della malattia condiziona fortemente il rapporto.
«Il medico moderno godeva di fiducia incondizionata, il suo potere derivava dal “salto sociale”, il paziente era disposto a mettersi completamente nelle sue mani. Questo senso di bio-onnipotenza declina con il medico “post-moderno” che acquista poteri nuovi e autentici. Persa la fiducia a causa del ricorso intensivo alla farmacoterapia, il medico diventa bio-medico interessato a scoprire i danni del malato, e il rapporto si inclina. Priva il malato di alcune certezze».
Ecco allora l’angoscia del medico che tocca con mano la sua non-onnipotenza, il non poter guarire è un’esperienza psicologica che può essere all’origine di comportamenti problematici nelle relazioni con il paziente. Si pensa che il medico tenti di controllare queste angosce stabilendo dei rapporti di potere con il malato, ma di fatto con la malattia vissuta come nemico. Il paziente può addossare al medico la colpa, o viceversa.
«Il ridurre il paziente alla sua malattia elimina la soggettività del malato, la sua capacità di narrare, di collegare esperienze ed eventi in un racconto denso di significato. Di situare la sofferenza nella storia, nelle relazioni sociali, ricostituendo un ordine temporale dotato di senso. Narrare la propria storia è un’operazione volta a ricatturare il passato a governare il pensiero dell’essere in qualche modo responsabili della propria malattia. Considerare che la malattia stessa aderisce ad una logica culturale del significato, è una realtà simbolica strutturata attraverso pratiche narrative condivise dai sofferenti, le loro famiglie i terapeuti. Comprendere l’intersoggettività di paziente e guaritore, l’intersoggettività è la fonte di forza per la cura. Corrisponde alla semplice verità percepita da chi soffre che alla comunicazione fa parte della cura. Se lo stato della mente è importante allora il medico può aiutare il malato a potenziare la sua capacità personale di recupero e guarigione».
Ci vuole coraggio, molto coraggio per scrivere queste cose sulla propria pelle. Francesca ci ha lasciati nel 2007. La conoscevo bene, Eravamo stati concorrenti in un concorso per un posto da ricercatore e aveva vinto lei. Confesso, che ne ero stato contento.
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